“Molti saranno rimasti perplessi per quanto riguarda il parallelo che faccio tra architettura e sartoria.” Adolf Loos
C’è un intreccio profondo e poetico, quindi, tra moda, città, architettura, forme e stili, un intreccio che parte dalla strada fino a relazionarsi con culture, modus vivendi, che le porta a contaminarsi a vicenda, passando attraverso ” le città storiche della moda” e giungendo sino agli attualissimi pop-up stores che altro non sono che architetture temporanee al servizio della moda, fenomeno questo in crescita negli ultimi anni (nati in Gran Bretagna, approdati poi a New York e riproposti anche in Italia negli ultimi mesi).
Pop, acronimo di point of purchase (punto di acquisto) è il punto di partenza dei dei pop-up stores, i cosiddetti “negozi a tempo determinato” aperti direttamente dalle aziende di produzione. Da Londra e New York passando per Milano le loro aperture sono considerate ormai dei veri e propri eventi. I “negozi temporanei” sono la soluzione alla crisi che ha colpito il campo dell’abbigliamento e la scelta ideale per chi vuole sondare il terreno in una nuova città o testare una nuova idea.
A cosa mira un pop-up store? L’idea cardine di questi store è abbassare il più possibile i prezzi di vendita dei prodotti e consentire quindi il rapido assorbimento da parte del mercato degli stock esistenti. Qual è il metodo migliore per fare ciò? Attraverso strutture cool che diventano veri e propri “palcoscenici” per la vendita atti ad intrattenere, stupire e coinvolgere il consumatore e, naturalmente, invogliarlo all’acquisto dei nuovi prodotti di lancio.
Quando l’architetto Rem Koolhaas presentò i progetti per i negozi americani di Prada, che furono etichettati come “scenografie”, probabilmente si ignorava quello che di lì a poco sarebbe successo: il giorno dell’apertura del negozio di SoHo (575 Broadway), questo ha smesso di essere un flagship ed è diventato l’«Epicentro Prada», ossia un luogo dove lo shopping esce dalla banale dimensione della compra-vendita e si sposa con l’arte, con la letteratura, con la musica.
Sempre a New York, la torre disegnata da Christian de Portzamparc fa da faro al quartier generale Louis Vuitton.
Così, mentre a Tokio si assiste ad una vera e propria guerra tra le grandi griffe per poter vincere il premio per l’edificio più cool al servizio della moda, i cosiddetti “archi-star” diventano l’alter ego dei grandi couturier: Frank Gehry per Issey Miyake, Peter Marino per Chanel, Herzog & De Meuron per Prada, il designer Bill Sofield per Gucci, Tadao Ando e i coniugi Massimiliano e Doriana Fuksas per Giorgio Armani, Renzo Piano per Hermés, e così via.
Chissà se il sociologo Georg Simmel, che alla fine dell’Ottocento parlava di moda come «sistema di coesione sociale», sarebbe oggi impallidito pensando agli stilisti nel ruolo di mecenati del ventunesimo secolo.
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